Il valore delle cose va capito prima degli altri. Solo così si può vincere.
Ora si concentra sulle istantanee che fissano i ricordi. Tessere d’un puzzle da comporre. O schegge affilate con cui tagliarsi.
Ha smesso di piovere, ma non ci aveva fatto caso.
Continua a stringere, e pensa al mare. Vorrebbe essere sott’acqua, quando è impossibile parlare. Quando è impossibile ferire gli altri, e per capirsi servono i gesti. Vorrebbe andare sempre più giù, metro dopo metro, e lasciarsi schiacciare dalla pressione.
«Eppure per tanto tempo ne abbiamo parlato. Per te era importante che io capissi quello che stavi facendo.»
Flavio aveva fatto una scelta. E l’aveva fatta perché credeva ancora nel possibile. Aveva un debito nei confronti del congiuntivo, il modo verbale che fonda il discorso ipotetico e lascia scivolare l’eventualità nell’ordine del reale.
Non posso portarti il mare, ma almeno ricordarti che esiste ancora. Come i sogni.
Averla fasciata aveva un valore enorme per lui: significava rinunciare a quella compulsione autolesionistica, liberarsi della terapia del dolore.
La decisione è l’impulso di un istante, un istinto che anticipa ogni ragionamento.
«Non sei tu a scegliere le cose in cui credere, sono loro che scelgono te.»
“Qualcuno dice che la pioggia è brutta, ma non sa quanto può essere utile. Soprattutto quando ti permette di andare in giro a testa alta, anche se hai il viso bagnato dalle lacrime.”
Mentre il mare scorre veloce intorno a loro, Massimo lancia un’occhiata al promontorio. Quindi chiude gli occhi e lascia che il vento gli accarezzi la pelle, aggrappandosi al calore soffuso dell’ultimo sole. Prova a svuotare la mente, rilassarsi. Cerca tra le pieghe del suo passato qualcosa che riesca a distrarlo. Che, oltre alla pelle, riesca a scaldargli anche il cuore.
Seduto alla scrivania, Massimo respira il profumo di resina e salsedine ed è costretto ad accettare che neppure davanti al mare è semplice essere felici. La vita viene a cercarti, ti scova anche in un rifugio alla fine del mondo, per sbatterti davanti alle responsabilità, a ciò che è stato e che - forse - continua a essere. Non c’è modo di scappare. Nessun luogo può proteggerti da te stesso.
E lui aveva ripensato a quella sindrome di cui aveva letto, che colpiva gli uomini a lungo reclusi. I muri smettevano di circondare i corpi e imprigionavano le menti al punto che non si voleva più uscire dal regime di costrizione. Era la pervasività del condizionamento. E così era accaduto anche a lui, in tutti quegli anni. Era passato da una prigione all’altra. Da un’ossessione all’altra.