Ma in quel momento eravamo tutt’e tre sul ghiacciaio, insieme, come non sarebbe piú accaduto, con una corda che ci legava uno all’altro, che noi lo volessimo o no.
…alla stagione della leggerezza doveva seguire necessariamente quella della gravità, ovvero il tempo del lavoro, della vita in pianura e dell’umore nero.
Non ricordavo bene perché mi fossi allontanato dalla montagna, né che cos’altro avessi amato quando non amavo piú lei, ma mi sembrava, risalendola ogni mattina in solitudine, di farci lentamente la pace.
E diceva: siete voi di città che la chiamate natura. È cosí astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente.
Ovunque andassi respiravo quest’aria di delusione e di rabbia, questo senso di torto generazionale. Era un sollievo avere già in tasca il biglietto con cui sarei ripartito.
Uno trova il proprio posto nel mondo in modi meno imprevedibili di quanto creda: dopo tanto girare ero finito in una grande città ai piedi delle montagne, con una donna che in fondo faceva il lavoro di mia madre. E con cui appena possibile scappavo in alto, a ritrovare le forze che la città ci portava via.
Da mio padre avevo imparato, molto tempo dopo avere smesso di seguirlo sui sentieri, che in certe vite esistono montagne a cui non è possibile tornare. Che nelle vite come la mia e la sua non si può tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre, e all’inizio della propria storia. E che non resta che vagare per le otto montagne per chi, come noi, sulla prima e piú alta ha perso un amico.